Argentina: il pane quotidiano al tempo del coronavirus

Pulisciti le scarpe, passati un poco di disinfettante, se vuoi, vai in bagno e lavati le mani”. Questo è il protocollo quando si arriva alla Mensa coordinata da Carina nella “Villa 31”.

Il locale deve misurare circa 40 metri quadrati, i lavori devono ancora terminare; le pareti sono intonacate, manca una buona mano di pittura, la cucina ha alcuni dettagli da rifinire, nel soggiorno ci sono due frigoriferi dove si conservano gli alimenti deperibili, al centro un tavolo che occupa molto spazio.

Ci sono taglieri, coltelli, non così professionali, sono da grigliata, ma le donne li usano come cuoche esperte.

Le pentole sono grandi, ce ne sono tre, quel pomeriggio, servono per cucinare circa 500 porzioni di stufato di pollo con riso, per intere famiglie della “Villa”  e dintorni che si trovano situazione di vulnerabilità.

Carina ha 40 anni, venti dei quali si è dedicata al lavoro comunitario con la “Fundación el Pobre de Asis” dove si occupa dell’organizzazione della cucina comunitaria della Villa 31 della stessa fondazione. Vive nel quartiere di Carapachay vicino a Munro, fa un viaggio di mezz’ora sul treno dalla stazione di “Belgrano Norte” fino a quella di “Retiro” e da lì si dirige a piedi verso la “Villa”. Prova una grande angoscia nel dover uscire in questi giorni di così tanta incertezza, ma capisce che il suo è un impegno verso la comunità che si aspetta una merenda e una cena; a volte uscire di casa diventa un po’ stressante. Il controllo di otre 100 persone e l’esposizione al rischio di contagio la preoccupa molto; ha un bambino che l’aspetta a casa.

“A volte nelle file che si creano c’è molta confusione, la situazione diventa molto tesa, soprattutto quando c’è la presenza di molte persone che vivono per la strada e che arrivano ‘fatte’. Chiedere loro di prendere le distanze e rispettarle è molto difficile; gli adulti più anziani sono più testardi e non riescono a regolamentarsi. Tutti noi ci mettiamo a rischio”.

Non è chiaro quando mense comunitarie hanno iniziato a funzionare. La ricercatrice del Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas, CONICET, Valeria Snitcofsky,  specializzata nella “questione  Villas” della città di Buenos Aires, ritiene che sia stato dopo il 1983  e che, a causa dell’aumento delle condizioni di indigenza, sono incominciate a nascere nei luoghi più degradati della città. Secondo la sua ipotesi, prima di quella data non c’era così tanta disoccupazione, quindi non c’è stato bisogno di stanziare fondi. “Prima degli anni Ottanta non c’erano i livelli di disoccupazione che sono emersi dopo, la fame non era un problema almeno non nella misura odierna”. Commenta.

Sono quasi le 17, è ora della merenda, oggi bevanda gusto cioccolato con i biscotti. La fila di donne, uomini e bambini comincia a formarsi, nelle loro mani bottiglie da due litri di plastica riciclata, altri portano bicchieri o tazze; solo qualcuno di loro indossa la mascherina, per chi è senza ci sono a disposizione quelle usa e getta fornite dalle donne che lavorano nella mensa comunitaria, perché l’ordine è “Avere le mascherine”.

Le quasi 200 razioni di cibo vengono distribuite in 15 minuti.

José è boliviano, ha 16 anni, la sua famiglia è venuta in Argentina quando ne aveva 5 . È un po’ timido, forse perché è la prima volta che va alla mensa comunitaria. Fin dall’inizio della quarantena i suoi genitori hanno avuto difficoltà a procurarsi i soldi per il cibo. Di solito non lo lasciano uscire molto nella “Villa”, questa è stata un’eccezione. Vive con i suoi genitori e con il fratello di sei anni.

“Mi lasciano a malapena uscire, questo mi stressa un po’, mia madre si preoccupa molto, oggi mi ha lasciato perché non abbiamo nulla da mangiare”. José è con suo fratello di 6 anni anche lui in fila con il suo contenitore, perché per una volta approfitteranno di una cena.

La strada comincia a riempirsi con l’avvicinarsi dell’ora di cena. Sempre più persone continuano ad arrivare. Molti di loro vivono per la strada , non portano una maschera, hanno le mani sporche e i vestiti sembrano stracci. Ma qui nessuno viene discriminato, tutti sono i benvenuti.

“Distanza Sociale!”, il grido di Carina, che organizza la fila. Sono arrivate molte più persone del previsto e lei deve controllare la situazione. Inizia a distribuire mascherine usa e getta e a spruzzare le mani delle persone con alcol liquido. Le sue aiutanti attendono all’interno l’ordine per iniziare a riempire i contenitori. Tre pentole piene di stufato di pollo con riso caldo sono appoggiate sul bancone, con le tre donne dietro come in formazione e in attesa di un cenno.

Molte delle persone che vengono alle mense per i poveri sopravvivono facendo lavori informali che però a causa della quarantena non hanno potuto continuare. La dottoressa María Mercedes Di Virgilio del CONICET spiega che si tratta di una popolazione vulnerabile che è costretta ad spostarsi per guadagnare qualche soldo. “Molti vivono di lavori precari o lavorano riciclando la spazzatura.  Senza possibilità di circolare per le strade e senza un’attività in generale, il lavoro informale diventa praticamente impossibile.

“La razione per cinque, per sei, questa è la razione è per dieci”, si sentono le urla delle donne e i contenitori cominciano ad allinearsi sul bancone. La maggior parte delle case delle “Villas” sono sovraffollate, sei o più persone possono vivere in una stanza, le aree comuni sono piccole e alcune senza alcuno sfogo.

A circa 100 metri dalla mensa c’è un giovane che è risultato positivo al COVID-19. Nella sua casa ci sono 17 persone e nonostante abbia due piani c’è un solo bagno per tutti.

Eduardo ha 37 anni. È uruguaiano e vive nella “Villa” da 4 anni. Lavorava in un bar vicino all’Obelisco, ma dall’inizio della quarantena è disoccupato. Ora viene di pomeriggio a prendere da mangiare per lui e per sua moglie. “Non ho potuto nemmeno fare lavori occasionali”, dice, rimpiangendo la mancanza di quei lavori sporadici con i quali era solito integrare il suo reddito per mangiare. “Ringrazio per il lavoro che fanno gli operatori della mensa sociale. In coda si nota che la maggior parte di loro sono madri che vengono a prendere il cibo e lo fanno persino con cinque figli a carico”, dice.

Cala la notte e c’è ancora gente in fila per mangiare. Nessuno, arrivato il proprio turno vuole sentire la frase “è finito”.
Le donne raschiano il fondo delle pentole cercando di far uscire le ultime razioni. Ci sono facce angosciate, cinque persone  aspettano ancora fuori. Non possono fare nient’altro.

Carina ha il compito di dire loro che non c’è più cibo, per fortuna sanno  capire. Dice loro di recarsi all’altra mensa, situata a un paio di strade di distanza ,chiude alle 20:00 . Gli uomini si salutano e se ne vanno per la loro strada.

La porta di casa è chiusa mentre tutto è organizzato per lunedì. Le donne si versano un bicchiere di vino rosso e me ne passano un altro. Beviamo un brindisi alla fine della giornata, ma per vederci di nuovo in salute.
Camminiamo per le strade vuote della “Villa 31” fino all’uscita, non ci sono applausi, né si sentono violini sui balconi, solo un reggaeton trasformato in cumbia ci dice addio.

Testo e foto Sikiuk Mendez, traduzione Stefano Scherma

 

 

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Argentina: la lotta per il pane e contro il coronavirus aumenta la “Distanza sociale”!

È venerdì e nella Villa 31, (una delle favelas di Buenos Aires) c’è un mercato all’aperto. Venditori di vestiti, scarpe usate e qualche vecchia cianfrusaglia, ancora in uso, espongono la loro merce su uno straccio uno accanto all’altro ad una distanza venti centimetri tra di loro.

A pochi metri, una stazione di polizia, due funzionari osservano la gente andare e venire. Alcuni indossano una mascherina di protezione, altri un fazzoletto che lascia libero il naso. Qui si è sentito parlare del coronavirus, sanno che è là fuori e, anche se non possono vederlo, lo affrontano senza paura.

L’amministrazione comunale della capitale argentina ha stabilito una legge per l’uso obbligatorio della mascherina negli spazi pubblici, ma nella villa 31 le regole sembrano essere altre.

La quarantena totale obbligatoria prevede che “tutte le persone che vivono nel paese (Argentina), devono rimanere in “isolamento sociale, preventivo e obbligatorio“. Il provvedimento è entrato in vigore con l’adozione del decreto 297/2020 il 20 marzo alle ore 00:00 fino al 31 marzo alle ore 24:00. Successivamente, il Presidente Alberto Fernándezha annunciato l’estensione di questo provvedimento in altre tre occasioni anche se con alcune eccezioni.

Nei quartieri più difficili della capitale e del cosiddetto “conourbano” di Buenos Aires, dal 1° marzo è in vigore la “quarantena comunitaria” accettata per “le comunità che possono funzionare da sole senza contatti con i luoghi a rischio”, ha detto il presidente Fernandez. Il decreto fa riferimento alla possibilità di eliminare l’isolamento in alcune zone rurali o piccole città dove non sono stati rilevati casi positivi di COVID-19, consentendo così la circolazione interna degli abitanti all’interno dell’area prevista.

Il coronavirus però dopo un po’ è arrivato anche in questi luoghi.

Il profumo di carne alla griglia pervade la strada, il fumo arriva da dietro l’angolo. E’ il posto di Carlos, che dopo più di 30 giorni ha deciso di rimettere in piedi il suo chiosco di panini, per cercare di guadagnare quei soldi utili a pagare l’affitto. Opzione panino con la bondiola (carne di maiale) o  il chorizo (salsiccia). “Ho un figlio e vivo in una casa in affitto, non ho abbastanza soldi per pagarlo, ho ricevuto un aiuto dal governo, ma non è abbastanza”. La polizia è a soli 50 metri dalla postazione di Carlos, in questi giorni non gli hanno mai detto nulla, ma lui sa che deve “contribuire alla causa” con almeno 12 panini alla bondiola.  Un paio di ragazzi li accompagnano e anche se non ci sono molti clienti vogliono aiutarmi a guadagnare un po’ di soldi.

Lo faccio anche per questi ragazzi che vengono ad aiutarmi. In questi giorni non c’è molta vendita a causa del coronavirus e anche se mi fa arrabbiare, preferisco dare via la merce piuttosto di smettere di vendere“.

Il mercato del lavoro non è più lo stesso da quando è scoppiata la pandemia di coronavirus, l’impatto è stato forte sul reddito degli argentini, che erano già in situazione di declino. La dott.ssa María Mercedes Di Virgilio dell’Istituto di ricerca Gino Germani dell’Università di Buenos Aires ritiene che con le interruzioni delle attività non essenziali dalla metà di marzo, il reddito degli argentini ne abbia risentito. “La pandemia ha avuto un forte impatto sulle dinamiche del lavoro e, quindi, sul reddito. Le attività non essenziali sono state interrotte da marzo e molte di esse rimangono chiuse“. La stragrande maggioranza di queste attività coinvolge molta manodopera, ad esempio quelle che forniscono servizi alla persona (parrucchieri, palestre, massaggi, ecc.)”. Alcuni sindacati hanno già acconsentito a tagli salariali”, dice l’operatore sanitario.

Carina cammina accanto a me e mi racconta di ogni luogo mentre camminiamo verso il “playón”. Mi anticipa che sarò sorpresa e mi promette che vedrò il più grande e vario negozio di frutta della capitale senza dover per forza andare al mercato centrale.

All’angolo, di fronte al campo di calcio si trova un grande bancone di frutta e verdura, è un gioco di colori e di freschezza. “Ci sono anche i melograni”, grida eccitata.

Chiede il prezzo al chilo, 70 pesos (1 dollaro al cambio ufficiale). Mi offrono cambure, due chili per 100, ci penso, fuori di lì un chilo può costarmi di più, ma alla fine decido di non portare due chili in più nello zaino e mi lascio sfuggire l’occasione.

Continuiamo ed entriamo in una strada larga circa quattro metri, ecco il “playón”. Una strada circondata da abitazioni che in modo precario crescono verso l’alto. I piani terra sono pieni di negozi al dettaglio e all’ingrosso; mini-supermercati, ristoranti, parrucchieri, studi dentistici, posti per mangiare, negozi di fotografia e persino una bancarella che vende mascherine.

-Come sta andando la vendita? -Chiedo.

-Beh, alla gente piace la varietà

 -E il prezzo? -Insisto.

-Sono 100 pesos a testa, non li faccio, li vendo e basta.

-Posso fare una foto?

 -Sì, ma non voglio essere immortalata

In questo periodo i giornalisti hanno invaso la baraccopoli e c’è una certa timidezza da parte degli abitanti, dobbiamo quindi essere più cauti.

La strada è bagnata, dobbiamo evitare qualche pozzanghera; non ha piovuto, ma sembra che siano perdite di acqua potabile. L’hanno ripristinata dopo più di due settimane. Alcune persone si ritrovano i fila con i contenitori per caricare il liquido vitale. La carenza dei servizi di base è una delle problematiche riportate dai media argentini negli ultimi giorni.  Come spiega la ricercatrice del CONICET Valeria Snitcofsky, “la carenza di servizi di base è sempre stata un problema nelle “Villas” anche se la situazione col passare del tempo era migliorata grazie all’organizzazione all’interno delle varie comunità di commissioni, organi di delegati e assemblee comunitarie.

L’impatto della pandemia sulle “Villas” sembra inarrestabile per il governo argentino: dal 21 aprile, quando il primo caso è stato confermato nella “31”, si è moltiplicato più rapidamente. Per la ricercatrice la situazione è molto drammatica, e non capisce come abbiano potuto rimanere senza servizio idrico per così tanto tempo. “Lo trovo drammatico e mi preoccupa molto il fatto che siano rimasti senz’acqua per così tanti giorni. Non riesco a trovare una spiegazione e le infezioni sono ora viste come il risultato di quel taglio. Al momento di questo articolo, ci sono 851 casi confermati di COVID-19 nella Villa 31, due dei quali sono morti

Osservo per un po’ i secondi piani delle case, sono stati costruiti improvvisamente e con materiali che non sembrano molto resistenti. Mi ricordano una zona nella parte occidentale di Caracas -La Morán-, dove le case sono precarie.  Le colonne del secondo piano erano fatte con i bidoni di plastica. Una scala che sembra fatta di ferro, a forma di spirale, è il percorso che si deve fare per arrivare allo studio dentistico, come annuncia un cartello appeso sulla stretta scala “Dentista Primer Piso – SALITE”.  Continuo a camminare, non voglio sembrare troppo “turista”, quindi di tanto in tanto tengo in tasca il telefono e smetto di registrare soprattutto quando ci avviciniamo al settore “Bajo Autopista”, dove tutto può essere più pericoloso.

Un ristorante peruviano pieno di gente offre un menù vario per tutti i commensali che, senza mascherina e senza distanza sociale, aspettano il cibo seduti su delle sedie improvvisate.

Alla stazione di polizia, proprio quando iniziamo a passare sotto l’autostrada c’è una ambulanza del Sistema de Atención Médica de Emergencias (SAME). Uomini in abiti speciali escono da uno dei vicoli, accompagnati da una donna che indossa una maschera e in mano una flebo. Altri due uomini la aspettano alla porta dell’ambulanza, la aprono, la donna entra e a poco a poco scompare dalla vista di tutti i curiosi che assistono alla scena.

Bene, bene, continuiamo da questa parte e non scattare foto con il cellulare“, dice Carina, che è già in ritardo per andare a finire la pizza per il pranzo delle donne che lavorano alla mensa dei poveri “Fundación el Pobre de Asís”e che ha lasciato sole per accompagnarmi nel giro.

Sotto l’autostrada Presidente Illia che taglia a metà la zona, si vede il sovraffollamento delle case: un muro è in comune con la casa accanto, il tetto delle case è praticamente l’autostrada che vi passa sopra. In questa zona vive Ramona Medina, uno dei leader della comunità dei media “Garganta Poderosa”, che lo scorso aprile aveva denunciato la terribile situazione di carenza d’acqua nel villaggio. Ramona è risultata positiva al COVID-19 ed è stata ricoverata in ospedale perché è una paziente a rischio, diabetica e insulino-dipendente. Al momento in cui scriviamo, si è saputo che è morta e che due dei suoi parenti sono risultati positivi.

La strada si allarga di nuovo e, in cima, si vedono i fili con i panni stesi, i muri di mattoni senza intonaco, i tetti improvvisati con la lamiera, al centro un piccolo campo da calcio e un parco per bambini, che a quell’ora appare desolato. Si vede un cane sdraiato sotto sole senza preoccuparsi troppo di ciò che succede intorno a lui. Tiro fuori il cellulare, non vedo alcun pericolo nel fare ancora un paio di foto.

Testo e foto Sikiuk Mendez, traduzione Stefano Scherma

 

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Colpo di stato o truffa? Le facce della Bolivia

Parte prima, Santa Cruz de la Sierra.

“C’è stato un colpo di stato civile, politico e di polizia”, ha denunciato l’ex presidente boliviano Evo Morales nel messaggio televisivo in cui qualche giorno fa ha annunciato le sue dimissioni e il suo esilio in Messico.

“L’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) ha dimostrato che la truffa era così ovvia che, a causa della resistenza del popolo boliviano, non poteva essere nascosta. Il presidente Evo Morales ha commesso crimini”, ha detto Luis Fernando Camacho, presidente del Comitato Civico di Santa Cruz. Il 21 febbraio 2016, infatti, ai boliviani è stato chiesto con un referendum se fossero d’accordo sulla rielezione del presidente e del vicepresidente, per un secondo mandato consecutivo. Il “No” ha vinto con il 51% dei voti. I boliviani pensavano di essersi espressi chiaramente. Ma non per la Corte Costituzionale Plurinazionale (TCP) che il 28 novembre 2017, con una sentenza costituzionale, autorizza il presidente Evo Morales e tutte le autorità elette a ricandidarsi di nuovo a tempo indeterminato.

A Santa Cruz de la Sierra, dopo 21 giorni di interruzione dei lavori e dopo l’autoproclamazione di un nuovo presidente in Bolivia e le dimissioni di Morales, gli abitanti di Santa Cruz iniziano a riprendere il loro normale ritmo di vita.

Prendo l’autobus verde che porta alla piazza “24 de septiembre, costa solo 6 bolivianos”.

Durante le interviste, quando chiedo se c’è stato un colpo di stato o una truffa alle ultime elezioni presidenziali, un primo signore mi risponde: “Penso che, il presidente uscente ha fatto cose che un altro presidente non ha mai fatto, favorendo gli abitanti di altre città, penso piuttosto che ci sia una guerra tra “cambas i collas”. Da un lato ci sono i “collas”, abitanti dell’ovest che rappresentano l’immagine andina della Bolivia, mentre dall’altro lato ci sono le “cambas” – sono i boliviani che vivono nell’est, o la parte del paese più ricca di risorse naturali e che sono associati al fenotipo europeo.

“Lui non ci ha mai unito, sempre ci ha fatti vivere come nemici” -a poca distanza si trova Luz (19), studentessa universitaria di Fashion Design- interrompe e dice ad alta voce: “Non lasciatelo tornare! “. Mi sono avvicinata e gli ho posto la stessa domanda. C’è stata truffa?

“Il 21 febbraio 2016 abbiamo vinto il referendum e non poteva essere rieletto. La città ora è tranquilla, va a vedere quanto è bella, se lui (riferendosi a Evo Morales) ritorna, sicuramente si tornerà indietro”.

Presto attenzione alle raccomandazioni di entrambi e prendo nuovamente l’autobus verde.

Joaquin lavora da 13 anni come autista sulla rotta dal centro città all’aeroporto, è un viaggio di 30 minuti, posso fare molte domande. Lungo il tragitto, osservo che molti dei grandi centri commerciali sono aperti e un buon numero di persone circolano con borse della spesa, c’è molto traffico verso il centro; il paese di una settimana fa era un altro, almeno a Santa Cruz, perché in quel pomeriggio, a 550 km nella città di La Paz, mancava quella, la pace (n.d.R gioco di parole fra il nome della città e pace-paz.)

“Finalmente smetteremo di essere il paese del narcotraffico“, dice Joaquín, quando gli chiedo come si sente dopo le dimissioni dell’ex presidente Evo Morales. Evo voleva truffare il popolo boliviano, ma i militari non lo hanno permesso. Evo non ha rubato soldi al popolo, ha fatto affari con il traffico di droga”. Il tempo passa rapido e arrivo alla mia fermata.

“Duecento metri verso laggiù (punta con la mano), lì c’è la piazza”.

La famosa piazza 24 de septiembre è affollata di gente, trovo difficile trovare una panchina su cui sedermi e puntare l’obiettivo della macchina fotografica. Un uomo travestito da clown annuncia teatro di strada, i bambini corrono spaventando i piccioni, altri fanno le bolle con l’acqua saponata mentre i compagni di giochi cercano di catturarle con le mani, le risate si confondono. Sulle scalinate della Chiesa ci sono alcuni giovani che si baciano e senza alcun pudore si scambiano  effusioni.

Trovo una panchina dove ci sono due donne e un uomo, li sento parlare del percorso che uno di loro ha dovuto affrontare i blocchi dei manifestanti seguaci di Evo per lasciare la zona dove vive. Mi scuso per averli interrotti e mi identifico come giornalista, sono molto ben disposti a parlare.

“Ci ha presi per tonti e noi non ci siamo lasciati ingannare. In ben due occasioni gli abbiamo detto che non volevamo la sua rielezione” commenta Lucia. “Ci sono persone che dicono che questo è socialismo, ma si sbagliano, non sanno nulla. Il socialismo è Danimarca, Svezia, Norvegia. Qui l’unica cosa che aveva il presidente era il suo popolo“, completa la risposta Jorge. Fino a pochi giorni fa, l’attività economica era paralizzata qui a Santa Cruz, “sì, ma erano manifestazioni pacifiche. dice Lucía.

Molte delle testimonianze che ho raccolto concordano sul fatto che il presidente Evo Morales ha creato una divisione tra la popolazione distribuendo la ricchezza del paese in maniera poco equa “creando una divisione fra gli abitanti del campo e quelli della capitale” conclude Daniela.

Prima di dirigermi nuovamente verso l’aeroporto, chiedo l’ultima un ultimo consiglio e naturalmente si riferisce al cibo. Cosa non posso lasciare senza provare Santa Cruz?

All’unisono hanno risposto, “majaito cruceño”, porta charque, un tipo di carne disidratata e salata, riso, riso, banane mature fritte, mi hanno convinto, vado per il majaito.

Ho salutato augurando loro buona fortuna e che il loro paese ritroverà la pace, ironia della sorte la mia prossima destinazione: La Paz.

 

Parte seconda, La Paz

Arrivo in città otto giorni dopo le dimissioni di Evo Morales e trovo un’atmosfera apparentemente serena. Si può camminare tranquillamente per le strade, si possono tranquillamente usare i mezzi di trasporto. Oggi non ci sono posti di blocco, si respira una calma tesa qui a 4.000 metri di altitudine nella città più alta del mondo.

La Paz fino ad oggi è stata teatro di un’ondata di manifestazioni contro il governo transitorio di Jeanine Añez, che ha assunto la presidenza del paese, dopo che Evo Morales si è dimesso andando in esilio in Messico fino a quando “le acque non si saranno calmate” seminando così dubbi tra i suoi seguaci di essere stato vittima di un “colpo di stato”.

Da quel momento, contrariamente a quanto pensava Morales, gli atti di violenza si sono intensificati e finora il bilancio parla di 23 persone uccise nelle manifestazioni.

Partecipo alla “Marcia per la pace”. I viali principali di La Paz sono pieni di seguaci dell’ex presidente, provenienti soprattutto della città di El Alto. I rappresentanti delle popolazioni indigene percorrono l’autostrada che collega El Alto a La Paz, chiudendo le strade bloccando il traffico automobilistico. “Vogliamo che i nostri diritti e le nostre tradizioni siano rispettati”, grida una donna alla telecamera.

“Signora giornalista, oggi la Bolivia è in difficoltà, la Bolivia è sconvolta. La mancanza di beni di prima necessità ha fatto sì che i boliviani debbano andare in più di un supermercato per cercare di trovarli”.

In “Plaza de los estudiantes”, un contingente di militari, con le loro uniformi e armi, cominciano a scendere da un convoglio. Li incrocio e chiedo il loro perché della loro presenza e se credono che la manifestazione possa diventare violenta. Solo una forma di “prevenzione“, mi rispondono. Approfitto poter fare qualche foto e registrare.

La marcia per la “Pace” in Bolivia si conclude in Piazza San Pedro, senza novità. Devo tornare di nuovo al punto di partenza, la chiesa “San Francisco”, i “Ponchos Rojos” sono già in città. Sarà la più grande dimostrazione finora a sostegno di Morales. Ora, senza aria e con il mal d’altitudine, devo risalire dieci isolati.

 

Parte terza, La Paz.

La città di La Paz non si riposa dalle manifestazioni. Il “Ponchos Rojos“, formazione di storici sostenitori di Evo Morales, è sceso da “El Alto” per chiedere le dimissioni di Jeanine Añez, presidente ad interim della Bolivia.

Sono migliaia gli uomini che scendono lungo la Calle Santa Cruz, per lo più uomini con un abito caratteristico che rappresenta le loro origini e li identifica come “Il Ponchos Rojos di Achacachi”. La loro attuale lotta è per il ritorno alla presidenza di Evo Morales, il primo “presidente indigeno, che ha lottato per loro contro ogni forma di discriminazione, emarginazione, esclusione sociale e politica” sostiene uno dei leader della marcia, che preferisce rimanere anonimo per paura di rappresaglie da parte del nuovo governo. C’è stato un colpo di stato e il mondo deve saperlo“, conclude.

I fuochi d’artificio accompagnano la manifestazione. In fondo alla strada i militanti riconoscono un “infiltrato”; in pochi secondi è circondato da uomini e donne che cercano di prendergli il cellulare in modo che smetta di registrare, l’uomo non è un infiltrato, è un avversario che si è imbattuto nella marcia quando uscendo dalla banca. Immediatamente mi avvicino e, quando lo lasciano proseguire, gli chiedo cosa ne pensa della situazione, “chiedo rispetto per le loro origini, ma chiediamo rispetto per il nostro voto. Evo è colpevole di frodi ed è per questo che se ne è andato”.

Lascio andare il signore senza chiedere il suo nome, gli sguardi cominciano a posarsi su di me, ma riesco a mescolarmi fra la folla fino a raggiungere l’altro lato della strada.

Dopo quasi trenta isolati arrivo al Palazzo del Governo che a causa degli scontri che si sono verificati nei dintorni, è stato protetto per alcuni giorni dalla polizia. Pablo ha circa 50 anni ed è uno dei leader, si mostra alla telecamera senza timore.

“La signora Añez deve lasciare il Palazzo, manifesteremo fino a quando non ci saranno dimissioni, chiediamo il rispetto”.

Davanti a una recinzione sorvegliata da agenti di polizia in tenuta antisommossa, un gruppo di donne protesta seduta. Josephina mi spiega perché l’autoproclamata presidente Añez non può occupare quel posto. “Lei non deve necessariamente trovarsi in quel palazzo, quella sede appartiene al presidente di Evo Morales, questo posto non le appartiene, La Paz non le appartiene, noi siamo i nativi e proprietari delle 20 province di La Paz”.

Fino alle 10 di sera ho ancora registrato alcune testimonianze quasi tutte concordi con la teoria del “colpo di stato” contro Evo Morales.

Improvvisamente un segnale di allarme, arriva la polizia, bisogna correre prima di essere colpiti dai gas lacrimogeni. Grido al mio collega Márcio che bisogna andarsene. Scappiamo, lui comunque continua riprendere. Asfissiati dai gas, riusciamo comunque a raggiungere la porta dell’Hotel Gloria (dove alloggia Márcio). Ci aprono e siamo al sicuro.

Dal suo appartamento c’è una buona visione di ciò che sta accadendo all’esterno, possiamo vedere l’attacco della polizia boliviana contro i “Ponchos Rojose le donne “polleras”, molte delle quali con bambini in braccio in cerca di riparo dai gas. La polizia non smette di sparare i gas lacrimogeni finché i manifestanti non si sono dispersi e le strade ritornate libere.

E’ stata una triste fine di una giornata in cui molti hanno potuto esprimersi in pace.

Testo e foto: Sikiuk Mendez, traduzione Stefano Scherma

 

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La vigilia elettorale in una Argentina in profonda crisi

A una settimana dalle votazioni per le elezioni presidenziali in Argentina, il candidato uscente Mauricio Macri, esponente di “Juntos por el cambio”, ha tenuto a battesimo la marcia del “Si se puede” lo slogan con cui sta conducendo la campagna elettorale. Macri sta cercando di invertire le previsioni che lo vedono nettamente in svantaggio rispetto al principale sfidante Alberto Fernandez del “Frente de todos”  leader del blocco peronista che presenta la ex presidente, la chiacchieratissima  Cristina Fernández de Kirchner come candidata alla vicepresidenza.

L’impresa sembra improbabile: a 3 giorni dalle elezioni, emerge una conferma di quanto rilevato dal voto delle primarie obbligatorie dell’11 agosto scorso; anzi sembra che secondo i numerosi sondaggi sulle intenzioni di voto, la forbice del divario si sia ampliata attestandosi intorno ai 20 percentuali.

Oggi rispetto due mesi fa, Macri sembra ricevere il solo sostegno dei fedelissimi non riuscendo ad ampliare la base elettorale.

Macri sebbene rimanga favorito nella capitale, pare sia condannalo ad una quasi certa sconfitta, in queste che sono le elezioni più importanti degli ultimi anni, soprattutto a causa di una situazione  del paese pesantissima.

Da quando nel 2015 è diventato presidente, si è registrato un drammatico peggioramento delle condizioni economiche e sociali. L’iper svalutazione del Peso sul Dollaro (da un rapporto di 1 a 15 a uno di 1 a 60 nel giro di 4 anni) con conseguente di un’ingente fuga di capitali, l’impennata vertiginosa dei prezzi di luce gas e trasporti, l’aumento di disoccupazione e delle condizioni di indigenza di un paese con più di 12 milioni di poveri e che con le risorse a disposizione potrebbe quotidianamente sfamare 400 milioni di persone, hanno portato l’Argentina sull’orlo del baratro.

Lo spettro della crisi del 2001 aleggia nell’aria già da tempo. La rabbia e la sofferenza per la situazione salta agli occhi semplicemente camminando per le strade della capitale. Tra gli aspetti più evidenti, si nota  di quanto sia aumentato in maniera esponenziale il numero delle persone che vivono e dormono in strada, soprattutto nelle zone del microcentro, i “cartoneros”,  nati con la crisi di inizio millennio, si sono moltiplicati a dismisura, i “comedores”, mense sociali solidali, traboccano di richieste e devono combattere con i tagli alle risorse. L’insoddisfazione si legge negli occhi della gente che deve fare i conti con una gestione sempre più complicata del quotidiano.

Anche se risultato delle votazioni di domani domenica 27 ottobre, sembra scontato e sia rivolto verso un cambio, i fedelissimi dei due fronti principali ostentano sicurezza e qui più che altrove nulla si può dare per scontato.

A prescindere da chi occuperà per i prossimi 4 anni la “Casa Rosada” il compito improbo. Il presidente dovrà subito dare segnali forti di inversione della rotta e rassicurare in primis i mercati. Inevitabilmente saranno varate riforme che costeranno lacrime e sangue e che con tutta probabilità colpiranno le classi che già sono gravissima in difficoltà.

Reportage e foto di Stefano Scherma.

 

 

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Argentina: la protesta sulle diseguaglianze sociali in Cile. E’ sconto con la polizia

La prevista manifestazione pacifica di lunedì 21 ottobre presso il Consolato cileno nel centro Buenos Aires a sostegno delle proteste in Cile contro l’aumento del 4% di prezzi del biglietto del bus, in generale contro il carovita e per protestare per i 15 morti e 2463 feriti (per ora) avvenuti negli scontri fra manifestanti e polizia, ha trasformato il centro della capitale argentina in un pomeriggio di guerriglia urbana.

Quando Stefano Scherma mi ha avvisato del sit-in, mi sono precipitata, li ho ascoltati, li ho registrati, li ho intervistati. La maggior parte di loro sono giovani cileni che vivono in Cile.

La situazione sembrava tranquilla tant’è vero che con Stefano siamo andati a prendere un caffè in un bar lì vicino. Nemmeno il tempo di finirlo che vediamo il movimento dei poliziotti che in massa si avvicina alla zona della protesta. Due minuti dopo eravamo in una pioggia di bottiglie che i dimostranti hanno lanciato contro la polizia i quali hanno risposto con colpi che mi hanno colpito e ferito alla gamba.

Nel frattempo alcuni dei dimostranti si sono recati nell’ambasciata per consegnare un documento al Console in cui:

  • Hanno chiesto di incontrare il presidente Piñera da La Moneda.
  • Hanno richiesto giustizia per i 13 morti ed equità nella qualità della vita.
  • Hanno affermato che le proteste non derivano dall’aumento di 30 pesos del prezzo del biglietto dei trasporti, ma da trent’anni di disuguaglianza.

Secondo le dichiarazioni, coloro che hanno portato il documento a Console sono stati maltrattati dai funzionari del consolato.

Alle 20.00 la situazione era sotto il controllo della polizia mentre i manifestanti rimasti cantavano “que lo vengan a ver, que lo vengan a ver, esto no es un gobierno son puras leyes de Pinochet”

Reportage di Sikiuk Mendez corrispondente di “Te lo cuento news”. Foto di Stefano Scherma

 

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