‘’Quello che non ho’’ . . . ma Marcorè si

E’ proprio vero che, a volte, le cose più interessanti nascono per caso . . .

Mi riferisco all’incontro con Michele Borghini il direttore di scena, credo si dica così, dello spettacolo “Quello che non ho “ di Neri Marcorè. Ho conosciuto Michele, lo scorso mese di gennaio, durante un lavoro per Canon e BMW in Alto Adige. Dopo una chiacchierata di pochi minuti siamo entrati in perfetta sintonia, d’altronde con lui è difficile non sentirsi a proprio agio. La sua folta chioma nasconde un viso sul quale una vita intensa è passata senza lasciare troppi segni, Michele è una persona che trasuda esperienza da tutti i pori. Una di quelle persone che quando inizia a raccontare il suo lavoro, la sua vita, non smetteresti mai di ascoltarlo.

Dopo i due giorni di lavoro, prima di salutarci, mi ha detto che di li a pochi giorni sarebbe passato al Teatro Alfieri di Asti per la prima stagionale dello spettacolo di Neri Marcorè. Detto fatto, in poche ore si concretizza la possibilità di fotografare il sound check e la prova generale dello spettacolo di Neri Maricorè.

Un’esperienza fotografica interessantissima, da vivere tutta d’un fiato come sempre quando si parla di fotografia.

E’ un mercoledì pomeriggio, entro a teatro con la solita discrezione che si deve avere quando si è ospiti. Gli addetti ai lavori sono molto ospitali nei miei confronti, dal regista Giorgio Gallione a tutto il personale che ha lavorato alla realizzazione dello spettacolo. Prendo posto nella platea deserta, sistemo la mia borsa e inizio a verificare le impostazioni delle fotocamere. Nel frattempo conosco Giordano Baratta, l’uomo che da la luce allo spettacolo e iniziamo a parlare di fotografia e di luci.

Mi rendo conto immediatamente che ho moltissime cose da imparare da Giordano, un vero esperto della disposizione delle luci di scena, una persona dall’enorme esperienza e dalla grande disponibilità, inoltre un appassionato fotografo. Le immagini in bianco e nero con tagli di luce laterale sono frutto del suo lavoro.

Pochi minuti e inizia il sound check, qui entra in gioco Lorenzo Patellani, colui che rende il suono adatto al teatro che ospita lo spettacolo. Lorenzo è un giovane fonico ma con una grande esperienza professionale, anche lui come Michele e Giordano, ha lavorato in grandi spettacoli e con molti personaggi del mondo dello spettacolo, la qualità del suo lavoro si sente eccome.

Nel frattempo tre musicisti, Pietro Guarracino, Vieri Sturlini e Maria Pierantoni Giua, iniziano a provare gli strumenti sul palco. Qui entra in gioco Marco Piazze, il backliner, armato di tablet e di esperienza, ottimizza il suono degli strumenti in base alle richieste degli artisti.

Vedendo il lavoro di questi tecnici mi viene voglia di creare un progetto fotografico ad hoc per loro, non è detto che non si possa concretizzare . . . anche se però forse ha ragione Marco, il backliner, il teatro è magia e il pubblico non dovrebbe scoprire quello che c’è dietro la scena altrimenti si rischia di fare svanire quell’aura magica che avvolge lo spettacolo.

Quante cose e quante persone dietro uno spettacolo teatrale, cose e persone che non si vedono e che lavorano silenziosamente per rendere l’esperienza del pubblico unica come sempre nelle rappresentazioni teatrali che si rispettino.

“Quello che non ho” è uno spettacolo dove si alternano narrazione e musica acustica, un lavoro che si ispira ai lavori di due personalità del passato Pierpaolo Pasolini e Fabrizio De Andrè. Attraverso i testi e le canzoni di questi due autori il protagonista, Neri Marcorè, rappresenta un’analisi personale del mondo attuale. Uno spettacolo che porta il pubblico a riflettere su temi spinosi quali, ad esempio, le politiche ambientali regolate dalle esigenze di un mercato dei consumi che non vuole arrestarsi di fronte a nulla, nemmeno alla vita degli esseri umani.
Una narrazione efficace che Neri Marcorè gestisce sapientemente alternando momenti di leggerezza ad altri di intense emozioni. Uno spaccato della nostra società, sempre in bilico senza trovare il giusto equilibrio tra l’ansia di vivere le difficoltà del presente e la speranza di trovare uno spiraglio di luce per un futuro migliore.
Un continuo alternarsi di narrazione e musica, una musica suonata dal vivo che si fa apprezzare per l’elevata qualità artistica dei musicisti.
Le musiche di Fabrizio De Andrè sono la colonna sonora d’autore, la voce e le doti di interprete di Neri Marcorè per un attimo mi fanno rivivere emozioni del passato.
La chitarra inizia a suonare, chiudo gli occhi per un istante e mi sembra di sentire Fabrizio li di fronte a me sul un palco, un palco storico che oggi si veste a festa per uno spettacolo da vivere tutto d’un fiato.

 

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I motori di ieri che “fanno” ancora spettacolo

Essendo nato a Torino e avendo appena compiuto trentanove anni posso dire consapevolmente di essere nato e cresciuto nella capitale italiana dell’auto. O almeno quella che trenta anni fa’ era considerata tale.
Il Lingotto era un luogo mitico, con le lettere colorate nel piazzale all’ingresso da via Nizza, la pista di collaudo sul tetto con le paraboliche e le rampe per salirci dal livello della strada.
Sarà l’avvicinarsi ai quaranta, ma divento nostalgico in questi giorni. Capita a pennello Automotoretrò al Lingotto.

Alla trentaseiesima edizione di questa fiera di esposizione e compravendita di auto e moto si affianca Automotoracing, una manifestazione motoristica nella pista cittadina ricavata tra l’Oval, la ferrovia e il retro del Lingotto. Se nei padiglioni interni si respira l’odore della pelle, dei motori e delle gomme, all’aperto si respira l’odore della benzina, delle gomme bruciate e dei gas dei bolidi che sfrecciano tra i marciapiedi rialzati tra derapate e burnout.

Si vede che i piloti si divertono un mondo, non vedono l’ora di guidare e anche il pubblico viene richiamato dal rombo dei motori.

E’ una festa dell’auto, dove grandi e piccini si godono lo spettacolo delle Punto, della Mustang, delle moto da enduro, delle meravigliose Lancia Delta che come ricorda Giovanni Dipillo, lo speaker d’eccezione della manifestazione, sono nate qui a Torino.

Così per qualche giorno ammirando le auto in vendita e quelle in pista possiamo dimenticarci che Fiat è diventata FCA ed è volata a Detroit.

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Oltre al “muro”. Pink Floyd in mostra a Roma

Parafrasando un successo dei Beatles, è stata davvero una “Long and winding road” quella che ha portato Syd Barrett, Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright e  David Gilmour dalle serate nei club della periferia londinese alle ricerche sonore della psichedelia ed al successo planetario di pubblico e critica.

Le difficoltà degli inizi, la alienazione mentale di Syd Barrett che già alla vigilia della pubblicazione del loro secondo album portò al suo allontanamento del gruppo, l’ingresso di David Gilmour, le difficoltà a far accettare la loro musica, i cui testi sono diventati negli anni più legati alla denuncia del disagio molto forte verso l’industria discografica in particolare e a determinate convenzioni sociali in generale, tutto ciò è ben evidenziato in questa articolata mostra presso il MACRO di Roma fino al 1 luglio 2018.

I numerosi oggetti, strumenti, amplificatori, dischi, manoscritti e fotografie incorniciano “attivamente” il percorso temporale.

Il visitatore è guidato in un dettagliato cammino cronologico attraverso le varie fasi creative del gruppo mettendo in evidenza sia il quadro di fondo nel quale tali creazioni hanno luogo che il contributo che i vari componenti hanno fornito. Non dimenticando tutti coloro che erano stati chiamati a tradurre nella grafica delle copertine, nella realizzazione di filmati promozionali e nella scenografia dei concerti le idee creative.

Le descrizioni nei pannelli esposti con l’ausilio audio che permette di ascoltare commenti, ricordi e opinioni non solo di Roger e compagni ma anche degli artisti della Hipgnosis con Storm Thorgerson in testa rendono molto vivo e godibile il percorso.

Storm è un amico dall’epoca della scuola di architettura frequentata da Mason, Waters e Wright ed ecco l’elemento comune che li lega nella visione dell’idea concettuale espressa in musica e tradotta nelle copertine e le installazioni sceniche, parti integranti dell’album e dei concerti.  Dalla prima collaborazione per il secondo album A Saucerful of Secrets un, immagine di pura ispirazione psichedelica, si percorrono espressioni grafiche e visive più esplicite e descrittive dell’idea di fondo dell’album: il prisma di Dark side of the moon, l’uomo in fiamme e la figura magrittiana di Wish you were here, il muro – The Wall  – che reale o mentale  costruiamo intorno a noi e fino alla drammatica atmosfera di incomunicabilità di The Division Bell.

In definitiva una splendida mostra.

 

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