All you need is…“click”. Fotografando i Beatles

I Beatles sono ancora la band di maggior successo nella storia della musica e hanno plasmato la cultura pop come nessun altro. A questo fenomeno hanno contribuito i fotografi che hanno immortalato ogni istante della decennale storia della band. Le loro immagini, riprodotte un miliardo di volte su copertine di dischi, copertine di periodici, poster, cartoline autografe, furono un carburante per la Beatlemania tanto importante quanto la musica stessa.

La mostra ‘All You Need Is Love’, conclusasi presso la galleria e Museo della Fotografia WestLicht a Vienna, mette in luce gli approcci più diversi con cui è stato alimentato il loro culto:  dal reportage mai mostrato prima di Peter Brüchmann del tour tedesco ‘Bravo Blitz’ del 1966 ai poster di pop art psichedelici di Richard Avedon fino agli outtakes del leggendario servizio di copertina di Abbey Road.

Ma il viaggio fotografico nel tempo rivela anche le metamorfosi esterne e interne dei Fab Four.

Mentre Max Scheler, per la rivista Stern, con il suo viaggio a Liverpool alle origini della loro fama, ha scattato fotografie quasi familiari, la crescente estraneità tra John, Paul, George e Ringo è palpabile per la prima volta nei ritratti molto personali di Linda McCartney del 1967 ed anni successivi.

Completata da immagini dell’unico soggiorno dei Beatles in Austria, riviste originali e rare copertine di LP, la mostra permette di vivere il fascino dei Beatles che rimane ininterrotto fino ad oggi.

Guarda il fotoracconto di Stefano Cipriani, per ingrandire le immagini clicca sulla prima e scorri con la freccia laterale.

 

 

 

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Le foto del World Press in mostra al Mattatoio di Roma

Fino al 22 agosto, a Roma negli spazzi dell’ex Mattatoio è possibile visitare la 64° edizione del World Press Photo. La mostra, promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale e dall’Azienda Speciale Palaexpo, ideata dalla Fondazione World Press Photo di Amsterdam e organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con 10b Photography, ospiterà le 141 foto finaliste del prestigioso premio di fotogiornalismo, che dal 1955 premia ogni anno diversi fotografi professionisti per i loro migliori scatti contribuendo così a costruire la storia del miglior giornalismo visivo mondiale.

Per la sua 64° edizione il concorso ha visto la partecipazione di 4315 fotografi da 130 paesi diversi che hanno presentato un totale di 74470 immagini per contendersi il titolo nelle 8 diverse categorie del concorso di fotogiornalismo: Contemporary Issues, Environment, General News, Long-Term Projects, Nature, Portraits, Sports, Spot News. A vincere i due premi più importanti, il World Press Photo of the Year e il World Press Photo Story of the Year, sono stati rispettivamente il fotografo danese Mads Nissen e l’italiano Antonio Faccilongo. Nissen ha vinto con la foto The First Embrace, che mostra un’anziana abbracciata da un’infermiera in una casa di riposo per la prima volta dopo mesi a San Paolo, in Brasile. Faccilongo ha vinto con il progetto Habibi, un reportage sul contrabbando di sperma nelle carceri israeliane da parte di famiglie palestinesi che vogliono preservare i loro diritti riproduttivi.

Le foto in mostra raccontano le notizie più rilevanti dell’anno precedente: il coronavirus, ma anche le proteste per l’uccisione di George Floyd, la guerra del Nagorno-Karabakh, gli incendi nel Pantanal, l’invasione di locuste in Kenia, la rimozione delle statue di personaggi controversi.

L’ha visitata per i lettori di Fotoracconti.it Stefano Cipriani. Per visualizzare ed ingrandire le foto clicca sulla prima e scorri con la freccia.

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San Francisco, l’amore per la città “disegnato” sui muri

“C’è così tanto amore in questa città” recita un murale nel distretto di Mission.

Forse l’amore non è necessariamente così tanto, ma c’è sicuramente qualcosa di molto speciale in questa città, che ho sempre sentito durante le numerose visite che ho fatto in 40 anni a questa bellissima signora distesa tra l’oceano e la baia.

E non è solo per le viste iconiche del ponte, di Lombard St. o dei cablecars: dai tempi di Janis Joplin e degli Airplane fino ad oggi è stata una questione di atmosfere, creata dai suoi cieli nuvolosi e dalle calde giornate di sole; tutti i tipi di musica, le bellissime case vittoriane, l’architettura moderna, i venditori di cibo di strada, i ristoranti bio-vegani, il Flower Power, la techno people. E la squadra dei 49ers, naturalmente. E i quartieri dove etnie provenienti dalle più disparate aree del mondo si sono stabilite nel tempo: Chinatown, North Beach, Japantown e il barrio latino nell’area lungo Mission street con i suoi meravigliosi murales che raffigurano scene di Santi e Madonne, antiche divinità Maya… e Santana.

E sopra a tutto questo – letteralmente – corrono le linee elettriche: una rete infinita di fili, che sembra mantenere unita tutta la città e portare la scintilla che dà vita alle diverse attività, ma che, allo stesso tempo, sono l’onnipresente elemento nel paesaggio urbano: un simbolo che ci riporta indietro nel tempo, ricordando la storia spesso avventurosa e drammatica di questa città.

Ma partendo proprio da quel murale citato nell’introduzione, vorrei portarvi in una colorata passeggiata alla scoperta delle opere degli artisti di strada che possono raggiungere livelli di elevata qualità sia artistica che di intensità del messaggio spesso legato al sociale. Infatti è facile trovare soggetti legati alle leggende mitologiche degli Aztechi, Maya o altre popolazioni precolombiane.

Oppure lavori che illustrano l’opera e le azioni di personaggi di diversa estrazione e di grande spessore – Frida Kahlo, Martin Luther King, Gandhi, Cesar Chavez, Oscar Romero – fino a uomini donne e bambini che hanno sofferto l’emigrazione, la violenza e i soprusi subiti in quanto immigrati clandestini o meno,  e sono diventate figure che con il loro storia drammatica sono diventate iconiche per una resistenza civile ai problemi derivati dalla carenza di diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione.

Un argomento ricorrente è il fare parte di una comunità e dunque molte opere celebrano non solo l’area della Mission ma anche scuole e particolari altri posti che sollecitano l’orgoglio di appartenenza e celebrano figure che hanno dato valore a queste piccole o grandi entità. Non solo riferenti alla comunità latina dato che che si possono ammirare murales dedicati ad altre comunità che vivono in città.  Ad esempio i murales rivolti alla comunità cinese, che descrivono fatti e personaggi di quel popolo.

Santana, i cui genitori sono emigrati insieme al giovanissimo Carlos dal Messico alla Mission, è un ‘eroe’ per la gente che vive in questo distretto. Pertanto aveva suscitato molto clamore il recente atto di vandalismo del murale rappresentante Santana, sulla 19 Strada all’incrocio con Mission St.  Il murale è stato ripristinato in pochi giorni, con grande ecco mediatico, dall’artista che lo aveva originariamente eseguito.

Ricordiamo che questo mezzo di espressione era stato sviluppato introdotto nella cultura messicana già in epoca precolombiana e in seguito rivitalizzato e sviluppato all’inizio del XX secolo poiché il vasto analfabetismo delle popolazioni Messicane e Latino Americane in generale,  poteva essere in parte superato da queste immagine didascaliche e di forte impatto sociale. I tre ‘maestri’ del muralismo furono ‘I Tre Grandi’, come erano chiamati Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Siqueiros, che seppure con approcci ‘marxisti’ diversi, hanno portato il ‘muralismo’ alle più alte vette espressive.

Rimaniamo però nell’ambito della città di San Francisco: proprio in questa città esistono ancora i tre più famosi murales (anche se il termine tecnico più appropriato sarebbe affresco) di Diego Rivera. la prima opera, terminata nel 1931, si intitola ‘Allegoria della California’ e la si può ammirare, in orari e giorni specifici, nella grande scalinata del City Club al n. 155 di Sansome Street.

La seconda opera, dello stesso anno, intitolata “La realizzazione di un affresco che mostra la costruzione di una città” e si trova al n. 800 di Chestnut St. all’interno del San Francisco Art Institute. È considerato un ‘affresco dentro un affresco’ poiché mostra i pittori mentre eseguono l’affresco stesso impegnati sulle impalcature, sovrapposte all’opera che stanno dipingendo.

La terza ed ultima opera eseguita negli Stati Uniti da Diego Rivera è la grandiosa ‘Unità Pan-Americana’, (il cui titolo ufficiale è ‘The Marriage of the Artistic Expression of the North and of the South on the Continent’) un ‘collage’ di 10 pannelli di diversi ma complementari argomenti che spaziano del Messico precolombiano alla Seconda Guerra Mondiale e che si possono ammirare nel City College di San Francisco al n. 50 di Phelan Avenue. La dimensione totale è di circa 7 metri di altezza per 23 metri di larghezza ed era stato commissionato a Rivera per essere esposto in occasione dell’Esposizione Internazionale del Golden Gate.Il lavoro cominciato nel giugno del 1940 non fu terminato in tempo per il settembre dello stesso anno, data di chiusura dell’Expo, ma fu nondimeno continuato e portato a conclusione nel mese di dicembre.

I murales si possono trovare in ogni zona della città ma molti sono localizzati nell’area di Mission Street dalla 17a alla 25a strada. In particolare alcune strade sono ormai dedicate da anni a questa arte come  Sycamore, Balmy, Cypress e Clarion. Ma ogni vicolo o traversa della zona può riservare grandi sorprese…

E’ da sottolineare la provvisorietà di molte di queste opere. Infatti, mentre per alcune di esse per il loro significato, per la dimensione e per il valore intrinseco dell’opera stessa rimangono intoccabili e/o periodicamente restaurati, molte altre vivono finché non vengono ricoperte da nuovi murales, anche nel giro di pochi giorni. (nelle foto successive si vedono 2 artisti eseguire la propria opera sovrapponendola a opere preesistenti”

La foto successiva ritrae un opera “intoccabile”, sul posto da 20 anni.

Seguono foto di soggetto vario astratto/fantastico

 

Sotto la gallery completa delle immagini. Cliccando sulla prima si ingrandisce e è possibile scorrerle in sequenza.

 

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Le Metropoli viste da Gabriele Basilico sono, in mostra

Da oggi 25 gennaio 2020, fino al 13 aprile, è possibile visitare a Palazzo delle Esposizioni di Roma, la mostra Gabriele Basilico. Metropoli, a cura di Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia, promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale e dall’Azienda Speciale Palaexpo, realizzata in collaborazione con l’Archivio Gabriele Basilico.

Dedicata a uno dei maggiori protagonisti della fotografia italiana e internazionale, la rassegna è incentrata sul tema della città con oltre 250 opere in diversi formati datate dagli anni Settanta ai Duemila, alcune delle quali esposte per la prima volta.

“La metropoli -hanno spiegato durante l’inaugurazione i curatori- è sempre stata al centro delle indagini e degli interessi di Gabriele Basilico (Milano 1944-2013). Il tema del paesaggio antropizzato, dello sviluppo e delle stratificazioni storiche delle città, dei margini e delle periferie in continua trasformazione sono stati il principale motore della sua ricerca”.

La mostra analizza questi temi mettendo a confronto le opere realizzate nelle numerose città ritratte, tra le quali Beirut, Milano, Roma, Palermo, Napoli, Barcellona, Madrid, Lisbona, Parigi, Berlino, Buenos Aires, Gerusalemme, Londra, Boston, Tel Aviv, Istanbul, Rio de Janeiro, San Francisco, New York, Shanghai, accostate secondo analogie e differenze, assonanze e dissonanze, punti di vista diversi nel modo di interpretare e di mettere in relazione lo spazio costruito.

Il percorso espositivo della rassegna si articola in cinque grandi capitoli: “Milano. Ritratti di fabbriche 1978-1980”, il primo importante progetto realizzato da  Basilico; le  “Sezioni del paesaggio italiano”, un’indagine sul nostro Paese suddiviso in sei itinerari realizzata nel 1996 in collaborazione con Stefano Boeri e presentata alla Biennale Architettura di Venezia; “Beirut“, due campagne fotografiche per la prima volta esposte insieme, realizzate nel 1991 in bianco e nero e nel 2011 a colori, la prima alla fine di una lunga guerra durata oltre quindici anni, la seconda per raccontarne la ricostruzione; “Le città del mondo”, un viaggio nel tempo e nei luoghi da Palermo, Bari, Napoli, Genova e Milano sino a Istanbul, Gerusalemme, Shanghai, Mosca, New York, Rio de Janeiro e molte altre ancora; infine  “Roma”, la città nella quale Basilico ha lavorato a più riprese, sviluppando progetti sempre diversi fino al 2010, in occasione di una stimolante quanto impegnativa messa a confronto tra la città contemporanea e le settecentesche incisioni di Giovambattista Piranesi.

Oltre alle opere in mostra, viene proposta un’ampia biografia illustrata che racconta attraverso brevi testi e immagini il percorso artistico e professionale di Basilico e tre video.

Sotto il fotoracconto di Stefano Cipriani, a questo link le immagini ad uso editoriali. Per visualizzare le foto clicca sulla prima e poi scorri con la freccia.

 

 

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A Roma il World Press Photo 2019

Fino al 26 maggio 2019 sarà possibile visitare, a Palazzo delle Esposizioni di Roma, la 62°edizione del World Press Photo.

La mostra ospita in “prima mondiale” le 140 foto finaliste del prestigioso contest di fotogiornalismo selezionate tra 78.801 immagini scattate da 4.783 fotografi provenienti da 129 paesi diversi.

I fotografi finalisti, che si sono contesi i premi, e protagonisti della mostra sono 43 provenienti da 25 differenti paesi: Australia, Belgio, Brasile, Canada, Repubblica Ceca, Egitto, Francia, Germania, Ungheria, Iran, Italia, Messico, Paesi Bassi, Norvegia, Filippine, Portogallo, Russia, Sud Africa, Spagna, Svezia, Syria, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti, e Venezuela. Di questi, 14 sono donne (32%).

A vincere questa edizione per la foto dell’anno è stato John Moore(presente all’apertura della mostra per la stampa) con lo scatto Crying Girl on the Border che mostra la piccola Yanela Sánchez, originaria dell’Honduras, che si dispera mentre lei e la madre Sandra Sánchez vengono arrestate da agenti della polizia di frontiera statunitense a McAllen, in Texas, il 12 giugno 2018.

In mostra da quest’anno anche una sezione dedicata al Digital Storytelling con una serie di video che raccontano gli eventi cruciali del nostro tempo.

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Oltre al “muro”. Pink Floyd in mostra a Roma

Parafrasando un successo dei Beatles, è stata davvero una “Long and winding road” quella che ha portato Syd Barrett, Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright e  David Gilmour dalle serate nei club della periferia londinese alle ricerche sonore della psichedelia ed al successo planetario di pubblico e critica.

Le difficoltà degli inizi, la alienazione mentale di Syd Barrett che già alla vigilia della pubblicazione del loro secondo album portò al suo allontanamento del gruppo, l’ingresso di David Gilmour, le difficoltà a far accettare la loro musica, i cui testi sono diventati negli anni più legati alla denuncia del disagio molto forte verso l’industria discografica in particolare e a determinate convenzioni sociali in generale, tutto ciò è ben evidenziato in questa articolata mostra presso il MACRO di Roma fino al 1 luglio 2018.

I numerosi oggetti, strumenti, amplificatori, dischi, manoscritti e fotografie incorniciano “attivamente” il percorso temporale.

Il visitatore è guidato in un dettagliato cammino cronologico attraverso le varie fasi creative del gruppo mettendo in evidenza sia il quadro di fondo nel quale tali creazioni hanno luogo che il contributo che i vari componenti hanno fornito. Non dimenticando tutti coloro che erano stati chiamati a tradurre nella grafica delle copertine, nella realizzazione di filmati promozionali e nella scenografia dei concerti le idee creative.

Le descrizioni nei pannelli esposti con l’ausilio audio che permette di ascoltare commenti, ricordi e opinioni non solo di Roger e compagni ma anche degli artisti della Hipgnosis con Storm Thorgerson in testa rendono molto vivo e godibile il percorso.

Storm è un amico dall’epoca della scuola di architettura frequentata da Mason, Waters e Wright ed ecco l’elemento comune che li lega nella visione dell’idea concettuale espressa in musica e tradotta nelle copertine e le installazioni sceniche, parti integranti dell’album e dei concerti.  Dalla prima collaborazione per il secondo album A Saucerful of Secrets un, immagine di pura ispirazione psichedelica, si percorrono espressioni grafiche e visive più esplicite e descrittive dell’idea di fondo dell’album: il prisma di Dark side of the moon, l’uomo in fiamme e la figura magrittiana di Wish you were here, il muro – The Wall  – che reale o mentale  costruiamo intorno a noi e fino alla drammatica atmosfera di incomunicabilità di The Division Bell.

In definitiva una splendida mostra.

 

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